“I monaci facevano l’arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso. Levatisi, la mattina, scendevano a dire ciascuno la sua messa, giù nella chiesa, spesso a porte chiuse, per non essere disturbati dai fedeli; poi se ne andavano in camera a prendere qualcosa, in attesa del pranzo, a cui lavoravano, nelle cucine spaziose come una caserma, non meno di otto cuochi, oltre gli sguatteri…. I calderoni e le graticole erano tanto grandi che ci si poteva bollire tutta una coscia di vitella e arrostire un pesce spada sano sano… In città, la cucina dei benedettini era passata in proverbio; il timballo di maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse come un mellone, le olive imbottite, i crespelli melati erano piatti che nessun altro cuoco sapeva lavorare…San Benedetto, al capitolo della Misura dei cibi, aveva ordinato che per la refezione d’ogni giorno dovessero bastare due vivande cotte e una libbra di pane.. Ma questa era una delle tante antichità…potevano forse le Loro Paternità mangiare pane duro? E la sera il pane era della seconda infornata, era caldo fumante come quello della mattina… Le cantine di San Nicola erano ben provvedute.. e se i monaci tringavano largamente, avevano ragione, perché il vino delle vigne del Cavaliere, di Bordonaro, della tenuta di San Basile, era capace di resuscitare i morti….” (De Roberto, I Vicerè).
L’altro giorno ho avuto il piacere, insieme ad un’amica e con la consulenza di una Guida, di visitare una parte del Monastero dei Benedettini di Catania, che avevo visto solo in alcune sue parti. La zona più affascinante e che mi incuriosiva di più era proprio quella delle cucine. Lo stesso De Roberto, nel suo romanzo più famoso ne parla ampiamente. Anzi è stato proprio leggendo il libro che è sorto in me il desiderio di visitarle. E devo ammettere che non sono rimasto deluso. Attraverso la vista, l’olfatto e soprattutto il tatto, ho sentito scorrere in me il passato, quell’epoca tutto sommato recente. Ho chiuso gli occhi e sentito il brusio dei monaci nei refettori, il tintinnio delle posate e l’affaccendarsi incessante dei cuochi e degli “squatteri”. Le mattonelle venute fuori dagli scavi e che ricoprono la struttura centrale ove il ceppo rosolava cibi, sono davvero invantevoli. Ho provato anche a sentire gli odori del tempo. Ho lasciato che l’olfatto unito a ricordi ed esperienze, riscoprisse dall’ archivio della mia mente odori conosciuti. Ho pensato al sentore di fritto nell’aria, le “arancine”, i "crispelli"… ne ho immaginato il sapore. Il passato scorreva davanti ai miei occhi e prendeva forma nella mia fantasia, percepivo quasi gli spintoni frenetici e involontari dei religiosi, intenti a preparare tutte le delizie che lo scrittore siciliano elenca nella sua opera, quasi fossero api attorno al miele. Ero quasi tentato di prendere posto nel refettorio ed aspettare avvinto dai crampi della fame, che mi venisse servita qualche bontà. Bisogna ammettere che si trattavano bene e che di tutte le regole di San Benedetto non gliene importasse più di tanto, o perlomeno avevano un modo di interpretarle alquanto soggettivo! In fondo mangiavano, bevevano e dormivano! Perché se è vero che dovevano alzarsi presto per cantare messa, dopo poco tempo, “stanchi” dal duro lavoro, lasciarono fare ai Cappuccini!
"I Padri.. per non scendere giù in chiesa, a mattutino, quando faceva freschetto, avevano ordinato, molti anni addietro, la costruzione di un altro Coro, chiamato Coro di notte, in mezzo al convento; ed anzi era costato parecchie migliaia d’onze, tutto di noce scolpito; ma adesso i Padri non si levavano neppure per andar lì, a due passi; restavano a covar le lenzuola fin a giorno chiaro, e il mattutino lo facevano recitare per conto loro ai Cappuccini, dietro pagamento”. (ancora da: I Vicerè).
Purtroppo il Coro di notte non sono riuscito a vederlo, perché la sala era impegnata, ma conto e spero di farlo presto. Ogni luogo che rappresenta l’arte e la letteratura è un patrimonio di sensazioni nonché fonte inesauribile di emozioni. Vedere dal vivo i siti immaginati durante la lettura è sempre affascinante; i luoghi, penso, raramente deludono, come invece può capitare quando un’opera letteraria viene tramutata in film. Ognuno di noi quando legge, si crea una propria idea e figura del personaggio e non sempre l’attore che lo impersona rende la profondità, o meglio non potrà mai essere come lo abbiamo immaginato noi. Con le dovute eccezioni, come ad esempio (me ne viene in mente una a caso, ma ci sono molti altri capolavori): Il Gattopardo di Luchino Visconti, con un maestoso Burt Lancaster ed una bellissima Claudia Cardinale. D’altronde anche questa vicenda è ambientata in Sicilia ed anche qui ci sono descrizioni culinarie da repentine acquoline in bocca... ma questa è un'altra storia.
“…Il De Roberto sentiva la verità storica con tanta passione da trasformarla insensibilmente in verità artistica” (Dalla tesi di laurea di V.Brancati)
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